18 settembre 2017
Don Milani, chi era costui?
Don Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923, in una famiglia della borghesia ebraica.
Nel 1943 si converte al cristianesimo e nello stesso anno entra in seminario. Diventato prete nel 1947, viene inviato nella parrocchia di San Donato a Calenzano, parrocchia ” di fame, di industrie e di comunisti”.
Qui resta sette anni, attirandosi i rancori dei comunisti, dei democristiani dei benpensanti e della curia.
E così nel 1954 viene inviato a Barbiana, un paesino disperso sul Mugello, un vero e proprio “penitenziario ecclesiastico”.
Eppure in questo posto fuori dal mondo don Lorenzo dà inizio ad una scuola e ad un’esperienza di comunità che hanno ancora tanto da dire alla Chiesa e alla società.
Don Lorenzo muore il 26 luglio 1967, dopo due anni di terribili sofferenze causate dal morbo di Hodgkin.
Don Milani, chi era costui?
Don Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923, in una famiglia della borghesia ebraica.
Nel 1943 si converte al cristianesimo e nello stesso anno entra in seminario. Diventato prete nel 1947, viene inviato nella parrocchia di San Donato a Calenzano, parrocchia ” di fame, di industrie e di comunisti”.
Qui resta sette anni, attirandosi i rancori dei comunisti, dei democristiani dei benpensanti e della curia.
E così nel 1954 viene inviato a Barbiana, un paesino disperso sul Mugello, un vero e proprio “penitenziario ecclesiastico”.
Eppure in questo posto fuori dal mondo don Lorenzo dà inizio ad una scuola e ad un’esperienza di comunità che hanno ancora tanto da dire alla Chiesa e alla società.
Don Lorenzo muore il 26 luglio 1967, dopo due anni di terribili sofferenze causate dal morbo di Hodgkin.
La visita del Papa a Barbiana, la sua preghiera silenziosa sulla tomba di don Milani, le parole che ha detto riguardo a questa grande figura di prete ed educatore mi hanno spinto a fare alcune riflessioni.
La prima: è proprio difficile essere riconosciuti in tutto il proprio valore dagli uomini di Chiesa.
Soprattutto quando si dicono cose scomode, come quelle scritte da don Milani in “Esperienze pastorali” o a riguardo dell’obiezione di coscienza.
E’ difficile per un certo tipo di uomini di Chiesa accogliere il nuovo che sconvolge prassi e metodi consolidati, anche se ormai sterili, concetti che demoliscono il cerchiobottismo scambiato per “dialogo costruttivo con tutti” e l’inerte viltà contrabbandata per “prudenza”, modi di dire e di fare che riaffermano (almeno su alcune cose fondamentali) il “sì sì, no no” di evangelica memoria, così spesso inviso ai potenti e ai gerarchi di turno, che preferiscono il parlare mellifluo e insalivato e un agire conseguente.
E il povero don Milani è proprio andato a sbattere con violenza contro questi atteggiamenti.
Fosse stato più “diplomatico”, più accondiscendente, meno spigoloso di carattere, probabilmente non sarebbe finito in punizione a Barbiana. E non avremmo avuto don Milani.
Sì, perchè Dio sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini e le punizioni e le persecuzioni, le calunnie e l’isolamento possono diventare opportunità di bene e di amore.
Diceva don Lorenzo ad un prete in crisi, che era andato a trovarlo per un confronto: “E’ Dio che mi ha messo qui. Questa certezza è il simbolo di una predilezione sconfinata di cui sono stato oggetto. Lamentarmi? Di che cosa? Perchè? Lamentarmi della mia felicità, della libertà che ho scoperto? Non ci sono rimpianti nella mia vita, nè nostalgie. I miei superiori io li amo… Della verità non si deve aver paura; un sacerdote non ha nulla da perdere; ovunque vada, troverà sempre qualcuno da amare, non a parole, che sarebbe un mostruoso misfatto e una ignobile falsità, ma con i fatti. Amare non significa dire qualcosa, significa dare noi stessi.”
Un uomo coraggioso. E obbediente. Perchè solo la vera obbedienza permette di essere davvero liberi.
E questo essere libero spinge don Milani (ah, se fosse stato più diplomatico!) a scrivere all’arcivescovo di Firenze, cardinal Florit, parole molto forti: ” Ho passato i miei diciassette anni di sacerdozio tutto teso solo verso le anime che il Vescovo mi aveva affidato. Del Vescovo non mi sono mai curato. Pensavo, nella mia ingenuità di neofita, che il Vescovo fosse un padre commosso della generosità dei suoi figli apostoli, preoccupato solo di proteggerli, aiutarli, benedirli nel loro apostolato. Pensavo che egli amasse i miei figlioli così che tutto quel che facevo per loro gli paresse fatto a lui e così il legame tra me e lui, anche senza mai vedersi o scriversi, fosse il più alto e il più profondo che esiste: un oggetto d’amore in comune.
Dopo sette anni di questa illusione idillica, d’un tratto seppi la tragica realtà: la Curia fiorentina e il Vescovo erano un deserto!
Allora scelsi quella che allora mi parve la via della santità: per nove anni ho badato soltanto a salvarmi l’anima, a accettare in silenzio le crudeltà con cui calpestavate in me un uomo, un neofita, un cristiano, un sacerdote, un parroco cui in diciassette anni non avevate saputo trovare neanche il più piccolo appiglio per un richiamo, un consiglio, un rimprovero. Ho badato ad accettare in silenzio perchè volevo pagare i miei debiti con Dio, quelli che voi non conoscete. E Dio invece mi ha indebitato ancora di più: mi ha fatto accogliere dai poveri, mi ha avvolto nel loro affetto. Mi ha dato una famiglia grande, misericordiosa, legata a me da tenerissimi e insieme elevatissimi legami. Qualcosa che temo lei non abbia mai avuto.
E per questo m’è preso pietà di lei e m’è improvvisamente saltato all’occhio che la santità non è così semplice come io credevo.
Lasciarsi calpestare può essere santo, ma nel calpestare me voi calpestate anche i miei poveri, li allontanate dalla Chiesa e da Dio. E poi a che serve amare e tacere, porger la guancia ai soprusi e alle calunnie quando chi li compie è il capo della Chiesa fiorentina?
Più santamente io tacevo e più scandalosa appariva la lontananza del Vescovo dai poveri, dalla verità, dalla giustizia. Ho lavorato alla mia personale santità, che (se anche l’avessi raggiunta) non sarebbe servita (in questa vita) che a metter in luce l’abiezione di una Curia che esilia i santi e onora gli adulatori e le spie”.
Linguaggio duro, parole forti, che trasudano sofferenza e, forse, anche rabbia per una gerarchia ecclesiastica lontana dal popolo, tutta presa da intrighi e inciuci con il potere politico, interessata a far tacere voci scomode, con punizioni che potessero essere un monito per altri potenziali “ribelli”.
E’ questa la Chiesa?
Alle prossime riflessioni.
don Roberto
La prima: è proprio difficile essere riconosciuti in tutto il proprio valore dagli uomini di Chiesa.
Soprattutto quando si dicono cose scomode, come quelle scritte da don Milani in “Esperienze pastorali” o a riguardo dell’obiezione di coscienza.
E’ difficile per un certo tipo di uomini di Chiesa accogliere il nuovo che sconvolge prassi e metodi consolidati, anche se ormai sterili, concetti che demoliscono il cerchiobottismo scambiato per “dialogo costruttivo con tutti” e l’inerte viltà contrabbandata per “prudenza”, modi di dire e di fare che riaffermano (almeno su alcune cose fondamentali) il “sì sì, no no” di evangelica memoria, così spesso inviso ai potenti e ai gerarchi di turno, che preferiscono il parlare mellifluo e insalivato e un agire conseguente.
E il povero don Milani è proprio andato a sbattere con violenza contro questi atteggiamenti.
Fosse stato più “diplomatico”, più accondiscendente, meno spigoloso di carattere, probabilmente non sarebbe finito in punizione a Barbiana. E non avremmo avuto don Milani.
Sì, perchè Dio sa scrivere diritto anche sulle righe storte degli uomini e le punizioni e le persecuzioni, le calunnie e l’isolamento possono diventare opportunità di bene e di amore.
Diceva don Lorenzo ad un prete in crisi, che era andato a trovarlo per un confronto: “E’ Dio che mi ha messo qui. Questa certezza è il simbolo di una predilezione sconfinata di cui sono stato oggetto. Lamentarmi? Di che cosa? Perchè? Lamentarmi della mia felicità, della libertà che ho scoperto? Non ci sono rimpianti nella mia vita, nè nostalgie. I miei superiori io li amo… Della verità non si deve aver paura; un sacerdote non ha nulla da perdere; ovunque vada, troverà sempre qualcuno da amare, non a parole, che sarebbe un mostruoso misfatto e una ignobile falsità, ma con i fatti. Amare non significa dire qualcosa, significa dare noi stessi.”
Un uomo coraggioso. E obbediente. Perchè solo la vera obbedienza permette di essere davvero liberi.
E questo essere libero spinge don Milani (ah, se fosse stato più diplomatico!) a scrivere all’arcivescovo di Firenze, cardinal Florit, parole molto forti: ” Ho passato i miei diciassette anni di sacerdozio tutto teso solo verso le anime che il Vescovo mi aveva affidato. Del Vescovo non mi sono mai curato. Pensavo, nella mia ingenuità di neofita, che il Vescovo fosse un padre commosso della generosità dei suoi figli apostoli, preoccupato solo di proteggerli, aiutarli, benedirli nel loro apostolato. Pensavo che egli amasse i miei figlioli così che tutto quel che facevo per loro gli paresse fatto a lui e così il legame tra me e lui, anche senza mai vedersi o scriversi, fosse il più alto e il più profondo che esiste: un oggetto d’amore in comune.
Dopo sette anni di questa illusione idillica, d’un tratto seppi la tragica realtà: la Curia fiorentina e il Vescovo erano un deserto!
Allora scelsi quella che allora mi parve la via della santità: per nove anni ho badato soltanto a salvarmi l’anima, a accettare in silenzio le crudeltà con cui calpestavate in me un uomo, un neofita, un cristiano, un sacerdote, un parroco cui in diciassette anni non avevate saputo trovare neanche il più piccolo appiglio per un richiamo, un consiglio, un rimprovero. Ho badato ad accettare in silenzio perchè volevo pagare i miei debiti con Dio, quelli che voi non conoscete. E Dio invece mi ha indebitato ancora di più: mi ha fatto accogliere dai poveri, mi ha avvolto nel loro affetto. Mi ha dato una famiglia grande, misericordiosa, legata a me da tenerissimi e insieme elevatissimi legami. Qualcosa che temo lei non abbia mai avuto.
E per questo m’è preso pietà di lei e m’è improvvisamente saltato all’occhio che la santità non è così semplice come io credevo.
Lasciarsi calpestare può essere santo, ma nel calpestare me voi calpestate anche i miei poveri, li allontanate dalla Chiesa e da Dio. E poi a che serve amare e tacere, porger la guancia ai soprusi e alle calunnie quando chi li compie è il capo della Chiesa fiorentina?
Più santamente io tacevo e più scandalosa appariva la lontananza del Vescovo dai poveri, dalla verità, dalla giustizia. Ho lavorato alla mia personale santità, che (se anche l’avessi raggiunta) non sarebbe servita (in questa vita) che a metter in luce l’abiezione di una Curia che esilia i santi e onora gli adulatori e le spie”.
Linguaggio duro, parole forti, che trasudano sofferenza e, forse, anche rabbia per una gerarchia ecclesiastica lontana dal popolo, tutta presa da intrighi e inciuci con il potere politico, interessata a far tacere voci scomode, con punizioni che potessero essere un monito per altri potenziali “ribelli”.
E’ questa la Chiesa?
Alle prossime riflessioni.
don Roberto