29 gennaio 2018
“Gesù, quando parlava, usava un linguaggio semplice e si serviva anche di immagini, che erano esempi tratti dalla vita quotidiana, in modo da poter essere compreso facilmente da tutti.
Per questo lo ascoltavano volentieri e apprezzavano il suo messaggio che arrivava dritto nel loro cuore; e non era quel linguaggio complicato da comprendere, quello che usavano i dottori della Legge del tempo, che non si capiva bene, ma che era pieno di rigidità e allontanava la gente. E con questo linguaggio Gesù faceva capire il mistero del Regno di Dio, non era una teologia complicata.”
Queste sono parole di papa Francesco, pronunciate all’Angelus del 16 luglio 2017.
Parole illuminanti, che dovrebbero provocare un serio esame di coscienza in tutte le persone che parlano complicato, ma in modo particolare in coloro che si definiscono discepoli di Gesù.
Alzi la mano chi ha letto un libro di teologia e l’ha capito senza problemi, senza aver dovuto rileggere più volte alcune frasi o addirittura pagine intere, senza aver dovuto consultare il vocabolario per vedere il significato di parole sconosciute. Più o meno come leggere un referto medico: ci vuole per forza un altro medico.
E’ il meccanismo della setta, della casta, gelosa custode della propria scienza, che non può essere data in pasto al popolino. E’ la dinamica del sapere trasmesso a pochi iniziati così da essere elemento di superiorità.
Dire le cose in modo tale che solo alcuni possano capirle probabilmente fa sentire più intelligenti, più sapienti. Superiori, appunto.
Quanta lontananza dallo stile di Gesù! Ma la cosa più preoccupante è la mentalità che sta dietro questo atteggiamento. Una Chiesa per pochi, per una minoranza, per quelli che hanno studiato, che diventano quelli da inserire (sempre con prudenza, s’intende) all’interno della casta. Una Chiesa in realtà pensata come un castello circondata e difesa dal muro dell’incomunicabilità con il resto del mondo.
Mi viene in mente la frase di una canzone di Vasco Rossi (e con questa citazione rivelo il mio livello culturale, che mi rende impossibile l’appartenenza alla casta dei migliori): ” Tu sola dentro la stanza e tutto il mondo fuori”.
E’ la mentalità perdente del “pochi ma buoni”, della Comunità che non deve includere, ma deve escludere.
E’ la facile gratificazione di parlarsi addosso con i propri simili, con quelli che la pensano come te o con quelli che, pur non pensandola come te, hanno il tuo stesso altissimo livello di cultura e bassissimo di intelligenza.
Già, perchè solo la persona davvero intelligente riesce a tradurre concetti complicati in modo semplice e comprensibile a tutti. Solo la persona intelligente non è gelosa del proprio sapere e lo mette a disposizione di tutti. Diciamocelo: Gesù era intelligente! A differenza di tanti suoi discepoli che usano il “teologhese” per farsi vedere bravi e dare l’impressione di aver studiato molto. Povera Chiesa, quando viene ridotta a realtà da “quartiere bene”.
I salotti buoni delle vuote parole e dei concetti altissimi dovrebbero, ogni tanto, misurarsi con il vivere vero delle persone, che lottano e soffrono tutti i giorni.
Ricordo un povero prete, grande teologo e oggi vescovo, specializzato in “teologia pastorale”, che diceva a noi altrettanto poveri preti, molti anni fa, che anche lui era esperto di vita parrocchiale: infatti andava confessare il sabato pomeriggio due ore in una parrocchia di Milano. Davanti a cotanta esperienza ci era venuto da sorridere. E abbiamo preso un po’ meno sul serio le mirabolanti analisi teologico-pastorali contenute nei suoi libri (comunque scritti in modo indecifrabile. Ne sanno qualcosa i componenti di un gruppo-famiglia della parrocchia di Rovellasca). La semplicità è rispetto di Dio e dell’essere umano. E’ umile riconoscimento della propria pochezza. E’ capacità di evangelizzazione vera. I codici cifrati li usano la spie e i delinquenti quando si parlano al telefono. E’ bruttissimo ritrovarli nei testi di teologia. E ancora di più in qualche catechesi degli adulti.
don Roberto Pandolfi