XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 22,1-14.

In quel tempo, rispondendo Gesù riprese a parlare in parabole ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio.
Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire.
Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono gia macellati e tutto è pronto; venite alle nozze.
Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari;
altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni;
andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.
Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali.
Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale,
gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì.
Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

 

Può sembrare strano che, in questa domenica, la Parola che il Signore mi offre attraverso la sua
Chiesa, vigna che la sua destra ha piantato e che lui stesso custodisce e protegge affinché porti
frutto (cfr Colletta XXVII domenica, anno A), mi mette in guardia sul pericolo del possesso.
Il richiamo che mi sembra di capire è che la nostra vita corre il rischio di essere risucchiata e
determinata dall’insidia del possedere più che essere aperta ad accogliere responsabilmente un dono
da far fruttare come semplici e leali amministratori.

È questo il canto che il profeta Isaia ci invita a innalzare per dare voce all’amore che abbiamo per la
vigna di Dio, per i suoi figli, per tutti i suoi figli. La vigna è sua, ma ci ha chiesto di amarla come
fosse la nostra, lasciandoci coinvolgere come ha fatto Mosè, per ricondurre a libertà, cioè a Dio, il
popolo di Israele, quel popolo che apparteneva proprio a Dio. Siamo noi quel popolo per il quale
Dio non si è tenuto in silenzio, quel popolo per cui non si è dato pace.

A volte sembra che di fronte al rifiuto, Dio si rimangi tutto, Dio sembra pentirsi…ma Dio ci vuole,
ecco la grandezza del suo amore: Dio ha deciso di non poter fare a meno di noi, di tutti noi.
Forse siamo un poco stolti e tardi di cuore, proprio come i due discepoli di Emmaus, ma solo due
cose credo ci possono aiutare a non cadere nella trappola che ci tende la paura – la brama del
possedere, del controllare, dell’avere tutto in mano nostra, di mostrarci forti e potenti, tanto da
prevalere sull’altro, se non di ucciderlo, è alimentata esclusivamente dalla paura di essere da meno –
sono la fiducia e la lealtà.
Fiducia nel Padre, come ci insegna Gesù. Fiducia in quel Padre che non ci fa mancare nulla, che ci
eleva alla dignità di figli e ci dà senso perché lo siamo e non perché abbiamo: Dio vuole noi e non
innanzitutto quello che facciamo.

Lealtà a quel Padre che si è giocato tutto per noi mandando fra noi, come noi il suo Figlio per
mostrarci come si può vivere nella relazione con il Padre da figli e da fratelli. Questo “come” ci
viene spiegato da san Paolo: “quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che
è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia
oggetto dei vostri pensieri” (fil 4,6-9).
Il frutto allora non potrà che essere la pace.

Questo la mia preghiera: a pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodisca i nostri cuori e le
nostre menti in Cristo Gesù, affinché il Dio della pace sia con noi! (cfr fil 4,6-9).

Monache Benedettine SS. Salvatore Grandate