Dal Vangelo secondo Marco Mc 9,2-10
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Domenica scorsa «lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12). Oggi invece è Gesù che ci prende con sé e ci conduce su un alto monte, in disparte, noi soli (cfr Mc 9,2), per rispondere lui stesso alla domanda di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31).
Verrebbe più facile accostare il monte Tabor con il Sinai, l’invito ad ascoltare il Figlio amato a quello di seguire quanto il dito di Dio ha scritto per restare sulla via della vita, piuttosto che con il monte Moria. Come Abramo, però, così anche Pietro, Giacomo e Giovanni, sono stati chiamati a fare verità, a scoprire cosa avevano nel cuore, se erano consapevoli di essere alla presenza di Dio, se lo amavano davvero al di sopra di tutto.
Sul Tabor ci viene offerto uno sguardo sulla fine, così da avere la chiave di lettura per affrontare i nostri Moria senza paura: la risurrezione. Gesù infatti «ordinò ai tre discepoli di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,9). Sia il Tabor che il Moria acquistano senso solo dopo la risurrezione, solo dopo la promessa di Dio, «che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32).
La nostra fede è sempre dopo, è conseguenza di una promessa in cui abbiamo sperato e in cui continuiamo a sperare. Quale promessa? Quella di una vita piena, felice, buona, salda, grande…
“Questa è la vita eterna: conoscere l’unico vero Dio, e colui che ha mandato, Gesù Cristo” (cfr Gv 17,3).
Bisogna avere pazienza con se stessi, accettare di camminare alla presenza di Dio (cfr ritornello salmo responsoriale), di vivere questo tempo di deserto facendo verità in noi stessi, scoprendo cosa abbiamo nel cuore (Dio già lo sa). Possiamo farlo se accogliamo l’invito ad ascoltare, infatti «dalla nube uscì una voce “questi è il Figlio mio, l’amato, ascoltatelo”» (Mc 9,7), facendo silenzio. Solo così Dio potrà riempirci di parole e significati, solo così il nostro camminare non sarà un accontentarsi di ricordi, ma un alzare gli occhi per vedere l’altare della croce e un aprire le orecchie per ascoltare l’invito che il nostro cuore continua a ripetere: «Cercate il mio volto!» (Sal 26,8-9).
Ci sia dato di poter dire: «Il tuo volto, o Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 26,8-9), perché «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8,34).
Allora facciamo ciò che ci dice san Benedetto nel prologo della Regola: “Ascolta attentamente, o figlio, gl’insegnamenti del maestro e porgi l’orecchio del tuo cuore; accogli volentieri i consigli dell’affettuoso padre e ponili vigorosamente in opera.”
Monache Benedettine SS. Salvatore Grandate