18 Lugio 2016
Mi sembra che stia andando sempre più di moda la partecipazione di preti e monsignori alla chiusura del mese di Ramadan. Mi chiedo che cosa li spinga. Forse un certo concetto dell’accoglienza, forse il desiderio di conoscere le usanze dell’ altro, forse (e sinceramente spero che sia l’unica motivazione) il desiderio di annunciare il Vangelo, sulla scorta di quanto dice san Paolo nella prima lettera ai Corinzi : “Mi sono fatto debole per i deboli per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo.” Questo dovrebbe essere lo scopo ultimo di ogni nostra azione,di ogni nostra parola, fieri di appartenere a Gesù e di poter invitare altri a condividere questa nostra grande gioia. E invece mi sembra che stiamo vivendo una certa sudditanza culturale e religiosa nei confronti dell’ Islam (e non solo dell’Islam, ma di tutti quelli che la pensano diversamente da noi Cattolici, ritenuti, solo per il fatto di essere diversi, migliori di noi. E un malinteso senso del rispetto ci fa diventare discepoli sbiaditi, incapaci di proporre con gioia ed entusiasmo il Vangelo. E così ci sentiamo in soggezione davanti a persone che invece non hanno paura di mostrare la propria forte identità culturale e religiosa). A volte ho l’impressione che il Cristianesimo (e non solo il Cattolicesimo) si stia suicidando utilizzando come veleno uno dei suoi elementi più belli e qualificanti, cioè il concetto di “prossimità”, quel farsi prossimo magnificamente descritto nella parabola del Buon Samaritano, che, privato della forza dell’annuncio che Gesù è l’unico che guarisce e salva l’umanità, riduce la Chiesa ad una grande ONLUS, ad una multinazionale dell’assistenza caritativa. E pensare che per secoli siamo andati (giustamente!) in tutto il mondo a cercare popoli a cui annunciare il Vangelo, convinti (giustamente!) che Gesù non stesse scherzando quando, alla fine del Vangelo di Matteo, inviò gli Apostoli a fare “discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Ora i “popoli” sono venuti da noi, in casa nostra, sono diventati nostri vicini di pianerottolo, non dobbiamo più percorrere migliaia di chilometri per andare a cercarli. E davanti a questa grazia di Dio, a questa stupenda possibilità di annunciare il Vangelo a chi non lo conosce noi discepoli di Gesù che cosa facciamo? Stiamo zitti! Con la scusa di non urtare la sensibilità di qualcuno, stiamo zitti, spesso purtroppo con la convinzione che abbiamo tanto da imparare e nulla da insegnare. Non possiamo rassegnarci a tutto questo. Occorre trovare qualche modalità per proporre Gesù a chi non è Suo discepolo. In parrocchia abbiamo fatto questo tentativo: durante l’annuale benedizione delle famiglie abbiamo dato alle famiglie musulmane un foglietto con un frase del Vangelo tradotta in arabo,in turco e in francese, l’anno prossimo aggiungeremo anche l’inglese e lo spagnolo. Un gesto piccolo e semplice, che però ha il valore di una proposta, è segno che non ci si vergogna di Gesù. Perchè spesso diamo proprio l’impressione che essere cristiani sia una vergogna da nascondere, da mimetizzare dietro il grande paravento della “carità”, che riteniamo essere l’unica cosa che legittima la nostra presenza sulla faccia della terra. E per fare la quale, tra l’altro, non occorre nemmeno essere cristiani! In Francia c’è un vescovo, mons. Dubost, che incontra periodicamente i Cattolici convertiti all’ Islam (forse sarebbe stato meglio incontrarli prima che si convertissero, ma tant’è! Si sa che vescovi e preti sono sempre molto impegnati.). Questo vescovo ha dichiarato che “i convertiti mi dicono: ho trovato due cose nell’Islam, una comunità e una spiritualità”. E di sicuro non hanno mai trovato discepoli di Gesù davvero innamorati di Lui!
don Roberto