13 agosto 2018
“Il rapporto con il malato può essere ambiguo. Aiutarlo, soccorrerlo, ascoltarlo, essergli vicino contribuisce a dare senso alla vita, alla propria e alla sua. Fa capire che malattia e salute sono ruoli che inevitabilmente si alternano, ora più ora meno,per ognuno, ossia fa toccare con mano il comune destino, l’autentica fraternità umana nella fragilità. Malattia, vecchiaia, morte sono debolezze a cui non sfugge nessuno, neanche i forti o i pretesi forti. Ma il malato, proprio perchè debole, può essere un prevaricatore prigioniero della sua malattia; comprensibilmente tutto preso dal suo “Io” aggredito, non vede e non può vedere altro. Senza rendersene conto, vorrebbe talora che tutti vivessero solo per lui, non può capire che anch’essi possono essere in difficoltà. Si deve certo aiutare il debole ma senza permettergli di prevaricare, anche nel suo interesse, così come chi cerca di salvare un altro che annega non deve lasciarsi tirare anch’egli sott’acqua e, se necessario, deve pure colpirlo per poterlo portare a riva.
Il male, fisico e morale, fa male a tutti e perciò bisogna arginarlo. La debolezza reclama, comprensibilmente, la centralità dell’attenzione, a volte quasi il monopolio; c’è talora, in essa, una specie di risucchiante vampirismo. Ho passato, molto tempo fa, un periodo difficile per la mia salute e il mio equilibrio e mi rendevo conto di essere talora insopportabile, tendenzialmente esasperante per le persone che mi aiutavano. Resistere alla tentazione egocentrica e prevaricatrice della malattia- del corpo o dell’anima- è difficilissimo e assai raro, è una delle più grandi virtù.
Ho avuto la grande fortuna di conoscere alcune (poche) persone, soprattutto donne, capaci di questa virtù, la virtus latina, valore in battaglia e capacità di preoccuparsi per gli altri pur nella sofferenza, nella consapevolezza della propria fine e nella lotta contro questa fine. Tutto ciò può succedere non solo a singoli individui, ma anche a gruppi, collettività, minoranze di deboli spesso barbaramente perseguitate, negate, oppresse. E’ ovvio che questi deboli soffocati dai forti vanno aiutati in ogni modo e con energia, pure difesi con la forza. Ma ogni organismo debole, individuale o collettivo, coltiva facilmente il compiacimento della propria debolezza, il desiderio di sentirsi e proclamarsi debole e perseguitato, anche quando non lo è più, usare la propria passata debolezza come un’arma, ora non più necessaria, ma intimidatoria. Pure una minoranza liberata da un’iniqua oppressione tende a sentirsi oppressa anche quando non lo è più, sentimento che la gratifica e la sprona a indurre gli ex oppressori o i loro discendenti a sentirsi ancora colpevoli”.
Parole, queste, di Claudio Magris, scritte per il “Corriere della sera”. Parole un po’ impietose, ma molto rispondenti alla realtà. Ognuno può fare l’esercizio di applicarle a individui, a gruppi sociali, a se stesso.
Di certo dobbiamo pregare il Signore, chiedendo la grazia di mettere da parte, nella sofferenza, il nostro egocentrismo. E’ grazia, appunto. Ma anche impegno, allenamento quotidiano di quando si sta bene.
don Roberto