27 luglio 2020
Ci sono terapie che servono a guarire e altre che servono a cronicizzare la malattia in modo da renderla sopportabile, garantendo così una accettabile qualità della vita.
Credo che le lamentele svolgano, per tante persone, questa seconda funzione. Lamentarsi di continuo aiuta a sopravvivere. Infatti questo atteggiamento esistenziale ha molteplici cause e spesso offre notevoli vantaggi. Se una persona è un po’ egocentrica e non trova corrispondenza ai suoi bisogni affettivi, lamentarsi e mostrarsi come vittima (degli altri, della pioggia, del vento, del destino, del traffico, del lavoro, della vita frenetica…) suscita in chi la ascolta (soprattutto la prima volta) un po’ di pietà, di commiserazione, di compassione.
E tutto questo si può definire “attenzione”, cioè esattamente quello di cui il “lamentoso” ha bisogno. E allora descrivere, anche con una specie di compiacimento, i propri malanni, le proprie sfortune, i (presunti) torti subiti e le (presunte) persecuzioni ricevute diventa un modo molto efficace per guardare se stessi con una certa dose di indulgenza (“come faccio a cambiare la mia vita se sto così male e tutti ce l’hanno con me?”) e per suscitare negli altri un atteggiamento consolatorio che può servire da coccola.
A volte, poi, il continuo lamento è un vero e proprio meccanismo di difesa. “Non vedi quanto soffro già? Non vorrai farmi soffrire anche tu? Risparmiami almeno questo dispiacere, visto che ne ho già tanti!”. Farsi vedere fragili, deboli e vessati dal mondo intero dovrebbe distogliere chiunque da qualsiasi tentativo di aggiungere altri dolori a chi ne prova già tanti. Meglio, quindi, giocare d’anticipo e mettere subito sul piatto tutti i malanni fisici di cui si soffre e tutte le incomprensioni che si devono subire quotidianamente.
Il ruolo del martire, tra l’altro, rischia persino di aumentare la considerazione del “lamentoso” da parte di chi ha un animo sensibile ( e un po’ ingenuo). Due piccioni con una fava. Si possono incontrare, però, persone lamentose che nascondono dietro a questo modo di fare una buona dose di aggressività. La lamentela, in questo caso, è funzionale all’affermazione di sè. “Io soffro molto più di te e quindi tu devi portarmi rispetto perchè sono superiore a te. Sono anche molto più forte di te perchè tu, al mio posto, avresti ceduto”.
E’ il tentativo, questo, di tenere l’altro in uno stato di inferiorità, perduto nell’ammirazione di tanto coraggio e di tanta resistenza, incapace di sottrarsi al fascino di chi è capace di soffrire così tanto. E si arriva, a questo punto, alla “lamentocrazia”: grazie al continuo lamentarsi si tengono soggiogati gli altri, si esercita il potere su chi si lascia ammaliare (abbindolare?) dall’elenco quotidiano delle sofferenze e delle sfortune.
Sopravvivere, difendersi, aggredire, esercitare il potere: quale di queste cose vogliamo fare quando ci lamentiamo? Chissà, magari riusciamo a farle tutte contemporaneamente!
don Roberto