4 febbraio 2019
Nell’immaginario comune la clausura non è una realtà molto appetibile. In un mondo che corre sempre di più, che avido di conoscenze, che osa spostamenti continui, che sembra girare come una trottola senza fermarsi mai è difficile pensare che qualcuno possa fermarsi, stare sempre nello stesso posto, vedere sempre le stesse persone, non farsi mai una vacanza…
Eppure queste persone esistono. Uomini e donne (soprattutto donne) che “escono” dal mondo, per ritrovare tutto il mondo nel proprio cuore, in una dimensione molto diversa da quella a cui siamo abituati. Presi come siamo dal “fare”, non ci sembra possibile che qualcuno “sprechi” la propria vita nel coltivare un rapporto sempre più intimo e profondo con Gesù. Spesso anche nella Chiesa corriamo il rischio di fermarci ad una materialità dei problemi e delle soluzione.
Tanti anni fa sentivo un prete che diceva: “Con tutto il bisogno che c’è in missione che cosa ci stanno a fare le suore di clausura?”. Richiamarci al primato di Dio. Farci riflettere sulla necessità e sull’importanza della preghiera. Ecco i compiti delle monache e dei monaci di clausura.
E poi c’è da dire un’altra cosa. Non so quanti hanno vissuto l’esperienza di incontrare a tu per tu queste persone, di varcare la soglia di un monastero alla ricerca di consolazione e di luce. Credo di poter dire che tutte queste persone si sono rasserenate, incontrando donne e uomini di Dio, capaci di far vedere un altro punto di vista, proveniente dall’Alto, capaci di sostenere e di illuminare con parole non semplicemente umane. Il monastero di clausura diventa allora luogo privilegiato di esrcizio della carità, dove l’intimità con Dio è strumento di aiuto e di guarigione per tanti fratelli e tante sorelle che vivono nel mondo e dal mondo sono spesso travolti e schiacciati.
Vengono in mente le parole di santa Teresa d’Avila, che diceva :” Il monastero è il luogo dove si prega, si lotta e si soffre per tutti e al loro posto”. L’efficienza, così come la intendiamo solitamente, impregnata di volontarismo e di ateismo pratico, non è un elemento importante nel monastero. E non lo dovrebbe essere neanche nella nostra vita.
La preghiera, che spesso non vede il risultato dei propri sforzi e del proprio impegno, è la forma più alta di carità eppure quanta fatica facciamo a ricavare qualche minuto al giorno per metterci davanti a Colui che può. Insomma, forse sarebbe utile rileggere alcuni aspetti della nostra vita alla luce della clausura. Anche per trovare un po’ più di serenità.
don Roberto